A Venezia è continua fonte di dibattito la diversa opinione circa l’opportunità di mantenere l’attività portuale nella città storica.
Quale rappresentante di una parte di lavoratori, che operano nel settore marittimo, ritengo utile porre sul tavolo della discussione alcune considerazioni, quali ulteriore contributo, per favorire una maggiore conoscenza del tema.
Desidero ricordare, innanzi tutto, come Venezia abbia perduto negli anni importanti aziende che hanno trasferito sedi e personale in terraferma, non solo a causa di trasformazioni aziendali, ma soprattutto per i maggiori costi gestionali legati alla logistica e ai trasporti. Questo esodo ha comportato una sommersa crisi economico-occupazionale che solo in parte ha potuto essere riassorbita dal settore turistico o dalle aziende ex municipalizzate.
Siamo consapevoli che i cambiamenti della struttura produttiva hanno avuto ricadute sul tessuto sociale e sull’economia della città (esodo, mercato della casa, rete commerciale), pertanto se partiamo dal presupposto che ogni azienda che lascia Venezia, rende la città più povera sotto il profilo sociale ed economico, dobbiamo riflettere se ci si può permettere di perdere una attività, come quella portuale, che dà lavoro, direttamente od indirettamente, a circa 18.000 lavoratori.
Per questo ritengo di avanzare alcune considerazioni alle argomentazioni poste in opposizione al traffico navale; soprattutto verso quelle che sono legate alla sicurezza e al controllo delle navi, ai pericoli che queste possono arrecare alla città e al problema del moto ondoso.
Per quanto concerne la sicurezza è giusto sapere che la Capitaneria di Porto, ora Guardia Costiera, ha effettuato in questi ultimi tre anni, su navi che toccano il Porto di Venezia, ben 455 controlli legati al PORT STATE CONTROL, strumento che sottopone a verifica le navi straniere che scalano i porti italiani, per accertarne la conformità alle norme internazionali in materia di sicurezza della navigazione ed anti-inquinamento, nonché alle norme nazionali applicabili. Esso mira a contrastare il fenomeno delle navi ”sub – standard”, che costituiscono un pericolo per le persone imbarcate, per l’ambiente e per la sicurezza dei traffici marittimi. In generale le navi sono catalogate secondo un profilo di rischio generato da un database informatico europeo, nel quale confluiscono i dati di tutti gli ispettori PSC dei paesi membri. Il numero di queste ispezioni ammonta a circa 20.000 l’anno e nella sola Italia, nel 2004, ne sono state effettuate 2385, grazie al lavoro di 140
Ispettori PSC. Per quanto concerne le navi battenti bandiera italiana, i controlli vengono effettuati annualmente e anche i sindacati sono coinvolti nella visita ai servizi di bordo e in quella tecnico- sanitaria.
Per quanto concerne il pericolo che le navi possono arrecare alla città, voglio ricordare l’episodio, avvenuto lo scorso anno, dell’arenameto alla M/N “MONA LISA”: dall’indagine è emerso che, a provocare l’incidente, fu un concatenarsi di cause quali la nebbia, una errata manovra ed un mancato uso dei rimorchiatori (che vengono utilizzati a discrezione dell’armatore). Vista la ridotta velocità in bacino, pari ai circa 6 nodi, era impossibile che la nave potesse andare ad urtare le rive di San Marco, data l’esistenza di una basso fondale fangoso (unghia), che arriva fino ai lati del canale di navigazione e, l’avvenuto arenamento, ne è conferma.
Per una maggiore sicurezza si può intervenire sul legislatore e su chi è chiamato a garantire il rispetto delle regole, operando perché le navi possano entrare solo in condizioni di alta marea e assenza di nebbia e, se hanno un tonnellaggio superiore alle 3000 tonnellate, siano obbligate all’uso di uno o due rimorchiatori. La velocità consentita dovrebbe poi essere ridotta a quella di governo nave.
Per quanto concerne il problema moto ondoso, ci si può attenere alle formule matematiche in uso alle migliori “vasche navali” del mondo, che evidenziano quanto il moto ondoso sia legato alla ampiezza e profondità del tratto di mare attraversato, al dislocamento nave e alla velocità di spostamento sull’acqua. Quindi, aumentando la sezione di un canale, con l’aumento della sua profondità, diminuisce la velocità dei flussi (inclusi quelli di marea) a beneficio delle sponde e della migliore distribuzione dell’ acqua. Ne risulta che, considerando il Canale di S. Marco, largo circa 200 mt (in rapporto ai 30 mt. massimi di una grande nave), abbiamo un moto ondoso ininfluente. Anche nel Canale S.Andrea diviene importante il rapporto tra l’immersione della nave e la profondità del canale; per questo l’Autorità Portuale richiede da tempo che la profondità sia riportata dagli attuali 9 mt, agli 11, eliminando ogni cunetta, come già previsto dalle cartografie del 1938. Tale intervento è previsto e collegato al D.P.C. del 3/12/2004, che decreta la stato di emergenza socio-economico-ambientale relativo ai canali portuali veneziani, a cui ha fatto seguito l’Ordinanza PCM n.3383, che ha nominato il Commissario all’escavo dei canali e alla depurazioni dei Fanghi e delle Acque, che si unisce al progetto integrato Fusina.
Il Segretario Regionale
FEDERMAR/CISAL
Paolo Bonafè