L’art. 27 della Costituzione sancisce che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: si tratta di un principio fondante dell’ordinamento che richiama il Paese a promuovere la riabilitazione di chi ha infranto la legge e, nel contempo, a garantire la società attraverso il reinserimento sociale di persone rieducate e, pertanto, a basso rischio di recidiva.
I segnali di allarme che provengono dai direttori e dai cappellani degli istituti di pena italiani e dal mondo del volontariato, evidenziano una situazione drammatica: sono 63.661 le persone recluse a fronte di una capienza di circa 43.327 posti, sono 38 i casi di suicidio avvenuti nei primi sette mesi dell’anno, fenomeno che, in percentuale, è di 21 volte superiore alla media dell’Italia. I detenuti sono per il 30% tossicodipendenti, per il 10% soffrono di patologie mentali, per il 5% sono affetti da HIV e per il 50% da epatite: rispetto ad un quadro sanitario già così critico, l’attuale situazione di sovraffollamento, acuita dal caldo estivo e dalla insufficienza di generi di prima necessità per l’igiene personale, incide pesantemente. Ma ad aggravare ulteriormente questo scenario contribuisce la carenza di organico del personale di polizia penitenziaria e le condizioni di trattamento degli stessi agenti, costretti anche a turni massacranti. Chiediamoci si ci sono le condizioni perché l’espiazione della pena sia il tempo per una riflessione critica della propria condotta e per la riabilitazione sociale? La sicurezza del Paese non si garantisce con la sola repressione ma anche con la qualità del sistema penitenziario.
Paolo Bonafè
Lido di Venezia