Anche la Chiesa, a seguito dello scandalo sessuale che ha investito il Presidente del Consiglio, ha finalmente denunciato il “disastro antropologico” che attraversa la società italiana. Non si può non concordare con la CEI nel momento in cui si appella alla formazione delle coscienze come strumento fondamentale per superare la “desertificazione valoriale”, fattore costituente di una mentalità, imbevuta di “una rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo basato sull’artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé”. Una mentalità alla radice del “disastro antropologico” che “si compie a danno soprattutto di chi è in formazione”.
Ma questa drammatica fotografia, che dimostra l’avvelenamento culturale cui l’Italia è stata sottoposta dopo 17 anni di berlusconismo, si accompagna al “disastro sociale” che priva ulteriormente le nuove generazioni di possibilità di progettare il loro futuro, di sentirsi protagonisti della vita del Paese. La crisi economica sta provocando l’aumento delle distanze sociali, accentuando le disuguaglianze e accentrando la ricchezza nelle mani del 10% delle famiglie che, da sole, detengono il 45% delle ricchezza del Paese. I ricchi, insomma, sono sempre più ricchi e i poveri sono sempre più poveri, mentre la classe media scivola inesorabilmente nella precarietà economica.
Un tempo il lavoro rappresentava una garanzia di dignità contro la povertà, oggi questo non è più vero: anche in Italia si sta affermando la categoria dei lavoratori poveri, fenomeno ben conosciuto negli USA, dove ha trovato la definizione sociologica di “workong poor”
Dobbiamo invertire la rotta rispetto ad una politica del lavoro, che enfatizza flessibilità e precarietà, a fronte della concreta perdita e rimodulazione dei diritti acquisiti in tanti anni di lotte sindacali.
Assistiamo così ad una autentica emergenza sociale che sta creando generazioni prive di tutele previdenziali e ammortizzatori sociali: i giovani oggi vivono un peggioramento sociale ed economico della loro vita rispetto alla generazioni dei loro padri, una involuzione del processo di crescita del Paese, inconcepibile fino a 15 anni fa.
Anche il tasso ufficiale di disoccupazione è falsato dalla presenza dei cosiddetti lavoratori scoraggiati – che non si iscrivono più negli uffici del lavoro – e dal moltiplicarsi dei contratti ascrivibili allo stesso lavoratore.
Oggi sono le famiglie e non lo Stato a farsi carico della funzione di ammortizzatore sociale.
In questo scenario rappresentano un ricordo le tre “I” dello slogan di Berlusconi (impresa, inglese, informatica) che hanno lasciato il posto a “P”, precarizzazione, povertà, paura. La sfida oggi sta in una nuova svolta politica, culturale e valoriale che investa in un Italia dove si affermino le tre “S”: solidarietà, società e sicurezza.
Paolo Bonafè –